La leggenda di San Martino di Tours
Metamorfosi di una divinità guerriera celtica in un campione dell’ortodossia cristiana.
Le civilt‡ antiche attribuivano particolare importanza alle ricorrenze calendariali. Gli avvenimenti astronomici, l’avvicendarsi dei cicli stagionali e colturali erano percepiti a livello individuale e condivisi nei rituali collettivi. I riti di fertilit‡ terrestre, le previsioni di ‡uguri ed aruspici, le preghiere ai numi atmosferici per propiziare la navigazione, le danze pluviali e i banchetti funebri, le cerimonie orgiastiche e le pause di purificazione, venivano rinnovati in particolari occasioni, coincidenti con le scansioni caratteristiche della metamorfosi ciclica della natura e della nozione stessa di tempo. In quei momenti si credeva possibile varcare le porte di altre dimensioni, mettere in comunicazione i vivi e i morti, in una visione panica e sapienziale che faceva del dio o della madre dea primordiale, del sovrano o dello sciamano, il fulcro della cerimonia.
La societ‡ contemporanea, a causa dei suoi ritmi tachicardici, ha dimenticato di fermare la propria corsa nei momenti in cui l’universo muta. Anche le festivit‡ cristiane, che opportunamente furono cadenzate in modo da riprendere simbolicamente le antiche tradizioni calendariali, vengono sentite in modo estrinseco e consumate rapidamente dall’uomo dell’era post-tutto.
Eppure, a ben guardare, esiste tuttora una certa permanenza significante di riti e tradizioni connessi alle date fatidiche, anzi il nostro tempo sembra compiere uno sforzo per riappropriarsi della memoria dimenticata.
Terminato il tempo della raccolta, sparse le semenze, la terra entra nella fase letargica, nel sonno buio dell’inverno, dal quale si ridester‡ a primavera. Il mese di novembre funge da spartiacque fra un anno agricolo e l’altro. Durante i primi giorni di questo mese, si continuano le semine di numerosi ortaggi e cereali. Prosegue la raccolta e molitura delle olive da olio. Si inizia quella delle mele cotogne e il mosto d’uva si tramuta in vino. Secondo le tradizioni popolari, tale ultimo fenomeno avverrebbe nel giorno consacrato a San Martino, l’11 novembre. Il santo, protettore dei soldati e dei cavalieri, dei viandanti, della gente di chiesa, dei viaggiatori, degli osti, Ë considerato pure protettore dei vendemmiatori. Patronato quest’ultimo chiaramente comprensibile, atteso che le usanze europee connesse con il nome di San Martino dipendono in gran parte dalla posizione calendariale della festa, che cade nell’autunno avanzato, periodo della svinatura, tempo di abbondanza a raccolti ultimati e, nello stesso tempo, momento di cambiamento climatico.
La consuetudine di festeggiare l’11 novembre ha invero radici antichissime.
La festa di San Martino, secondo alcuni studiosi, rappresenta l’evoluzione cristiana dell’antico capodanno celtico (Samuin), che si celebrava nella prima decina di giorni di novembre e simboleggiava il passaggio al nuovo anno agrario, la morte e la rinascita delle forze naturali. I Celti festeggiavano l’inizio dell’anno al momento in cui i semi appena sparsi cominciano il loro ciclo metamorfico negli inferi, dai quali rinasceranno col primo sole primaverile, per trasformarsi in piante. La festa comporta dunque cerimonie tipiche di “capodanno”, cioË di cambiamento stagionale (si pensi all’”estate di San Martino” e al detto “a San Martino si veste il grande e il piccino”). In passato, nel giorno di San Martino, iniziava l’attivit‡ forense, quella scolastica e il lavoro dei parlamenti, si pagavano fitti e pigioni, si traslocava, si tenevano libagioni e fiere, rallegrate con fuochi e bevute di vino. Il Santo portava doni ai bambini, scendendo dalla cappa del camino e, quando erano stati monelli, lasciava in casa una frusta, detta in Francia Martin baton o martinet.
Sia in Italia, (tacchino, cicerchiata) sia altrove (nordeuropa: oca, dolci speziati) la festa Ë celebrata nelle campagne con la consumazione di cibi particolari, tipici della stagione autunnale, come le castagne. L’oca (facile preda dei cacciatori durante la migrazione novembrina), servita a tavola nei paesi nord europei, Ë un elemento ricorrente nell’iconografia di San Martino. Il suo primo biografo, Sulpicio Severo, riferisce che il santo riteneva questo animale un messaggero demoniaco. Si rammenti che oche sacre e intoccabili, ritenute dai Celti messaggere dell’altro mondo, accompagnavano i pellegrini pagani ai loro santuari.
San Martino nacque a Sabaria (l’odierna Szombathely), in Pannonia inferiore (attuale Ungheria), antica terra celtica, nel 316 d.C. circa; morÏ a Candes, in Francia, nel 397.
La figura di Martino si diffuse soprattutto nel mondo rurale europeo, a causa dell’opera di evangelizzazione delle campagne, svolta dal santo durante la propria vita. E’ considerato il padre del monachesimo occidentale e fu nell’alto Medioevo il santo pi_ popolare dell’Occidente, soprattutto in Francia, dove la sua famosa mantella o cappa (chape, in francese, da cui chapelle = cappella reale in cui era conservata e chapelaine = custode della cappa) divenne una specie di vessillo nazionale.
La biografia di San Martino, a met‡ strada tra storia e leggenda Ë segnata da eventi eccezionali. Fu educato da genitori pagani e trascorse la fanciullezza a Pavia, ove ebbe modo di conoscere il Cristianesimo e di divenire catecumeno intorno ai dodici anni. Fu istradato alla vita militare dal padre, a sua volta soldato, che lo aveva consacrato al dio latino della guerra (Martino = piccolo Marte). Divenne cavaliere ed in tale ruolo si distinse per coraggio e sagacia. Proprio durante un giro di ronda a cavallo si verificÚ il pi_ celebre degli episodi della sua vita: la donazione di met‡ del proprio mantello ad un mendicante ad Amiens e la successiva visione in sogno del Cristo, che rivelÚ al giovane soldato di essergli apparso sotto le mentite spoglie del povero infreddolito. Un cavaliere disposto a distruggere uno dei principali oggetti distintivi del proprio rango, la clamide appunto, per alleviare le sofferenze di un disperato, non poteva che candidarsi a divenire un esempio di carit‡ cristiana. Il messaggio non violento della fede lo aveva ormai segnato e il suo desiderio fu ben presto di pronunciare i voti. Non potÈ coronarlo subito perchÈ l’opinione pubblica e la stessa chiesa non vedevano di buon occhio il fatto che un militare di carriera entrasse a far parte del clero. I biografi riportano l’episodio dell’addio alle armi: nel 354 Martino stava partecipando alla guerra sul Reno, al servizio dell’imperatore Costanzo e contro gli alemanni. Prima della battaglia, ormai disgustato dagli spargimenti di sangue, Martino rassegnÚ le proprie dimissioni dall’esercito. Il comandante lo accusÚ di vilt‡. Martino gli rispose che non di vilt‡ si trattava bensÏ di redenzione ottenuta grazie al verbo evangelico: per dimostrarlo assicurÚ che avrebbe combattuto da solo, armato del simbolo della croce in vece di scudo e spada. L’indomani era sul campo ad attendere il nemico. Ma accadde l’imprevisto: invece di attaccare, gli avversari inviarono ambasciatori di pace. Stupito e ammirato, il generale concesse senza ulteriori esitazioni a Martino il richiesto congedo. Nel 355 Martino si recÚ a Poitiers, presso il santo vescovo Ilario, che lo teneva in grande stima e che gli offrÏ di ricoprire la carica di diacono, da lui rifiutata per svolgere l’umile ma delicato compito d’esorcista. L’amore per gli indifesi e l’umilt‡ sono caratteristiche mitopoietiche tipiche di Martino. LavorÚ a lungo in collaborazione col santo compatrono della diocesi di Parma e, proprio al seguito di Sant’Ilario, sostenne aspre contese contro l’eresia ariana. Dopo un soggiorno milanese, Martino si ritirÚ in una grotta nell’isola ligure della Gallinaria, ove visse in eremitaggio, alla maniera dei santi asceti orientali degli albori del Cristianesimo. La scelta di Martino per una vita contemplativa proseguÏ in Francia, a LigugÈ, ove raccolse alcuni discepoli e fondÚ il pi_ antico monastero europeo. Ivi si dedicÚ all’opera d’evangelizzazione dei territori pagani. In particolare, fece abbattere gli alberi sacri ai Celti, un’azione simbolica comune ad altri santi, che conferma da un lato l’esigenza di stroncare le resistenze idolatriche, dall’altro la necessit‡ di trasferire in Martino il patrimonio simbolico della cultura pagana (laddove compatibile col messaggio cristiano), senza creare forti traumi nella popolazione. Alfredo Cattabiani riporta che un giorno alcuni contadini, per vendicare il sacrilegio commesso contro gli alberi sacri (nelle antiche culture considerati simboli assiali o polari) legarono Martino al tronco di un pino, che poi segarono, convinti che avrebbe travolto il profanatore nella caduta; ma la pianta cadde miracolosamente in senso opposto, schiacciando i persecutori. La sovrapposizione di una figura di santo ad un nume pagano, allo stesso modo della costruzione di chiese, laddove in precedenza erano collocate are sacrificali, Ë un fenomeno che rientra nella strategia dei “furti sacri”, teorizzata da Sant’Agostino e applicata sovente dal Cristianesimo dei primi secoli.
I miracoli di San Martino vengono narrati dai suoi biografi, i pi_ attendibili dei quali sono i contemporanei Sulpicio Severo e Paolino da Nola. Il primo episodio miracoloso fu esperito dal santo su se stesso: riuscÏ a superare in preghiera una crisi d’avvelenamento, causatagli dall’aver ingerito foglie di elleboro. Gli eremiti si procuravano, infatti, cibo e medicinali, sfruttando la vegetazione spontanea intorno alle grotte, di cui conoscevano le propriet‡. Evidentemente, Martino non doveva essere poi cosÏ esperto nel campo botanico, per essere incorso in un cosÏ grave errore.
Il fuoco Ë l’elemento naturale connotativo del santo: un globo infuocato (simbolo di potenza solare) si poggiÚ sul suo capo mentre stava celebrando una messa; il santo arse di viva fiamma il trono dell’imperatore Valentiniano, simpatizzante dell’arianesimo, che si era rifiutato di riceverlo nella residenza di Treviri. Straordinarie furono le doti di taumaturgo: resuscitÚ un catecumeno ed uno schiavo che si era impiccato, ridonÚ la parola a una donna muta a Chartres (gli Ë dedicata una delle celebri vetrate della cattedrale del luogo). Lo stesso biografo Paolino di Nola fu protagonista di un miracolo: Martino gli restituÏ la vista. Il santo sottomise un orso bruno che aveva divorato un asino (figure animali che simboleggiano le forze infere). Il diavolo in persona tentÚ di contrastarlo, spacciandosi per Cristo ma il santo ne riconobbe la vera identit‡, causa l’eccessiva opulenza delle sembianze assunte dal grande ingannatore, e lo smascherÚ. Una leggenda testimonia il legame tra il santo e la terra: mentre stava passando per Augune, nel Vallese, vide l’erba bagnarsi di sangue proveniente dal suolo, secondo alcuni sgorgato dal luogo del martirio di San Maurizio (allegoria della compenetrazione tra il mondo inferiore e quello superiore, tra la natura animale ed umana e quella minerale). Gli abitanti di Tours, probabilmente attratti dalla fama dei suoi poteri miracolosi, pur di averlo a capo della loro diocesi, inviarono due sicari a rapirlo. Divenne vescovo il 4 luglio del 371. Tuttavia, Martino continuÚ a preferire la vita ascetica alla propria funzione episcopale. LasciÚ cosÏ la modesta abitazione di Tours e si recÚ a Marmoutier, ove fondÚ un’alacre comunit‡ cenobitica. Anche al momento della morte, il santo dimostrÚ di ricalcare l’esempio del monachesimo orientale e dei primi santi stiliti: colpito da grave infermit‡, si adagiÚ su un cilicio posto su un letto di cenere e abbandonÚ l’esistenza terrena, pregando in sereno distacco. Dopo la morte a Candes, il suo corpo fu condotto a Tours, capoluogo della Touraine, ove i funerali si tennero l’11 novembre, tra ali di folla. La tomba fu sistemata all’interno della cattedrale costruita in suo onore nella cittadina francese, che Ë valente centro di studi universitari. I pellegrini che si recavano presso il sepolcro si immergevano in un bacino d’acque terapeutiche e raccoglievano l’olio dalle lampade votive della chiesa, considerandolo taumaturgico.
La figura di San Martino gode di un’eccezionale venerazione. In Veneto era chiamato “re divino”.
In effetti, la studiosa Margarethe Riemschneider sostiene che egli avesse occupato il posto di una divinit‡ celtica venerata in Pannonia; un dio cavaliere del mondo infero terrestre, un nume della vegetazione, considerato garante del rinnovamento della natura dopo la “morte” invernale. E’ legittimo ritenere che si trattasse di una divinit‡ solare. Uno degli attributi simbolici di cui era dotato era la ruota (simbolo del sole e del ciclo cosmico), cavalcava un nero destriero e indossava una mantella di eguale colore. Il nero esprime la forza della materia primordiale, della terra negra (la Al Kemi egizia) e la mantella finÏ per coprire le spalle anche di Martino, santo cavaliere e guerriero. Raffiguratissimo nell’iconografia Ë il citato episodio in cui Martino dona la met‡ inferiore della cappa al mendico incontrato per la via. L’ideologia cristiana, spesso espressa per immagini, intese modificare il rapporto di Martino con gli inferi che, mentre nelle culture pagane erano visti semplicemente come l’altra faccia del mondo superiore, nella nuova religione divennero il luogo della dannazione. Per questo motivo, il mantello di Martino mutÚ nel colore bianco e il santo fu impegnato in aspri combattimenti col diavolo, come attestano molte leggende. Per inciso, la cappa rimase uno degli oggetti tipici della cavalleria.
Il processo di trasformazione dell’antica divinit‡ pagana in santo cristiano era completato. Il suo culto, dal nordeuropa si diffuse velocemente, sino a raggiungere anche l’Italia meridionale. San Benedetto consacrÚ a Martino il tempio una volta dedicato ad Apollo (dio solare), sulla vetta di Cassino. A Roma fu il primo santo non martire ad essere venerato (basilica di San Martino ai Monti, sull’Esquilino). Ad Assisi la sua storia Ë narrata nella prima cappella a sinistra, con gli affreschi di Simone Martini; sulla facciata del duomo di Lucca Ë rappresentato il miracolo del globo di fuoco. A Milano, nella basilica di Sant’Ambrogio, vescovo che lo conobbe e gli fu amico, il patrono milanese viene raffigurato mentre partecipa alle esequie di Martino a Tours. Il vescovo Felice, a met‡ del VI secolo, dedicÚ a Martino la cattedrale di Belluno. Di particolare interesse Ë il carnevale di Point - Saint-Martin, localit‡ in Valle d’Aosta, il cui toponimo deriva da un episodio miracoloso. Il vetusto ponte ligneo, unica via di accesso al paese, fu distrutto da una piena del fiume Lys. San Martino patteggiÚ col diavolo la ricostruzione del ponte, in cambio dell’anima del primo utilizzatore del passaggio. Il demonio accettÚ la proposta e si diede alla ricostruzione. Terminata l’opera, pretese la ricompensa promessa. Ma fu beffato: il primo a transitare sul ponte fu un malcapitato cane. Ogni anno, nel periodo di carnevale, gli abitanti di “Ponte San Martino” ricordano l’episodio con l’accensione di falÚ (ricorre nelle celebrazioni l’elemento igneo), un corteo, giuochi e una sfilata di carri allegorici. Al termine della cerimonia, il pupazzo con le fattezze del diavolo viene incendiato e gettato nel fiume.
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